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LA GRANDE CRISI
DEL 1929 IN AMERICA E IL « NEW DEAL »
Quando, nel
marzo 1929, il repubblicano Hoover assunse la presidenza degli USA, il paese
aveva apparentemente raggiunto il culmine della ricchezza e della potenza.
In un'atmosfera
di folle ottimismo, i corsi della borsa di Wall Street, la maggiore del mondo,
salivano rapidamente; tutti si buttavano negli affari o nelle speculazioni.
L'economia statunitense non soltanto operava ormai a livello continentale,
subordinando a sé con l'esportazione di capitali e con lo sfruttamento delle
risorse locali gran parte dell'America latina, ma trascinava dietro di sé,
direttamente o indirettamente, tutto il sistema economico occidentale. Il motto
di Hoover, «la prosperità è all'angolo della strada», fu preso per vero, e ci
si comportò di conseguenza.
All'improvviso,
in ottobre, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò la crisi, che doveva
manifestarsi come la più grave della storia americana, e tale da riflettersi
pesantemente su tutto il mondo occidentale, con conseguenze incalcolabili.
Essa assunse all'inizio l'aspetto di un generale crollo delle azioni di borsa:
il crack di Wall Street. Ma non si trattava soltanto, come molti
credettero (o sperarono) di una semplice crisi di borsa, per quanto tragica.
Essa si allargò in alcuni mesi a tutta l'economia, con il crollo delle attività
produttive, il blocco dei commerci, i milioni di disoccupati, l'annientamento
della capacità d'acquisto delle masse. L'America e il mondo si chiesero di che
si trattasse: di una delle note crisi cicliche o di una crisi del sistema capitalista ?
« Sembra
indiscusso - scrive un famoso economista americano - che nel 1929 l'economia
era fondamentalmente malsana... Molte erano le cose che non andavano bene, ma
cinque punti deboli devono avere esercitato un influsso particolarmente
profondo sul disastro finale. Eccoli:
1. La
cattiva distribuzione del reddito.
Sembra certo che il 5 per cento della popolazione con i redditi più
elevati ricevesse approssimativamente un terzo dell'intero reddito personale.
[Questa
concentrazione delle ricchezze faceva sì che l'economia americana si fondasse
su un alto volume di investimenti e di consumi di lusso. Nello stesso tempo
però, all'aumento della capacità produttiva determinata dall'alto volume di
investimenti, non corrispondeva una parallela crescita delle possibilità di
consumo nelle masse, benché i consumi venissero sollecitati con le vendite
a rate o con le facilitazioni creditizie. Questo fondamentale squilibrio tra
investimenti, produzione e consumi è
dimostrato da un dato significativo: tra il 1919 e il 1929 la
produzione per lavoratore nelle industrie manifatturiere era aumentata del 43
per cento, mentre salari. stipendi e prezzi erano rimasti tutti relativamente
stabili].
2. La
cattiva struttura delle società per azioni [queste avevano assunto
carattere speculativo ed erano tutte intrecciate tra loro in complessi sistemi
monopolistici. che sfuggivano a qualsiasi controllo].
3. La
cattiva struttura bancaria. Quando
una banca falliva le disponibilità di altre venivano congelate, e ciò per i
depositanti era il segno ammonitore dell'opportunità di andare a chiedere il
proprio denaro. Così un fallimento ne tirava altri, e il movimento si
diffondeva con effetto di domino.
4. Lo stato
dubbio della bilancia dei pagamenti. [A partire dalla guerra, le
esportazioni americane erano sempre state eccedenti sulle importazioni. Per
permettere ai paesi esteri, soprattutto Germania e America latina, di coprire i
loro deficit derivanti dalle importazioni americane, i capitalisti e i
finanzieri statunitensi avevano concesso grossi prestiti alle amministrazioni
pubbliche straniere, spesso in modo sconsiderato e ricorrendo alla corruzione,
come nel caso dei dittatori centro e sud-americani. Ma questa politica, già
altamente rischiosa, non poteva durare in eterno, tanto più che l'accentuato
protezionismo americano non lasciava negli USA sbocchi commerciali agli altri
paesi. Così anche le esportazioni americane decrebbero, venendo a colpire
specialmente gli agricoltori, già sacrificati dalla caduta dei prezzi e da una lunga stagnazione].
5. Il misero stato dell'informazione
economica [la politica economica era ancora dominata dal mito del pareggio
del bilancio statale anche a costo della disoccupazione, dalla paura
dell'inflazione, dal dogma dell'agganciamento del dollaro all'oro. Ciò ritardò
i provvedimenti necessari per limitare la crisi].
J. K. galbraith, Il
grande crollo, tr. it. di A. Guadagnin, Milano, ed. Comunità 1962, pp. 193
sgg.
Dopo il grande
crollo di Wall Street venne dunque la grande depressione. Essa durò
in tutto quasi un decennio e costrinse a rivedere, sia in pratica sia in
teoria, i fondamenti stessi che reggevano un sistema economico entrato in così
grave crisi per un eccesso di produzione rispetto alle possibilità di consumo,
mentre la grande maggioranza dell'umanità viveva in condizioni di povertà
endemica.
A iniziare dal
1930 la disoccupazione dilagò negli USA e nei maggiori paesi industriali (Gran
Bretagna e Germania in testa), per raggiungere nel 1932 la cifra di 12 milioni
di senza lavoro nei soli Stati Uniti: qui più di cinquemila banche avevano
chiuso gli sportelli, i fallimenti di industrie ammontavano a 32 mila, i prezzi
agricoli erano crollati ai livelli più bassi del secolo, il reddito nazionale
si era dimezzato, la produzione industriale era scesa a un quinto, gli
investimenti a meno di un decimo. Nel 1933 la disoccupazione salì ancora, fino
a colpire un terzo della forza lavoro.
Il presidente
Hoover, che cercò di affrontare la crisi con i tradizionali strumenti di
politica economica, ne fu travolto. Nelle elezioni del 1932 risultò eletto a
grande maggioranza il democratico Franklin Delano Roosevelt (1933-1945). Ancor
prima di insediarsi alla Casa Bianca egli si era formalmente impegnato a
seguire un nuovo metodo, anzi a stringere un «nuovo patto » (New Deal) con
il popolo americano. Si trattava a suo avviso di rifondare su nuove basi la
società americana, di rinunciare ad alcuni dogmi che l'avevano retta fino
allora, di sostituire un'« economia pianificata» allo sfrenato individualismo
economico, una società di massa organizzata all'anarchismo, uno Stato del
benessere (Welfare State) allo Stato indifferente di fronte agli squilibri
sociali e agli interessi privati.
Si intuisce
facilmente come i principi, i metodi e i risultati del New Deal rooseveltiano
fossero oggetto di molte polemiche e ancor oggi di varie interpretazioni. Le
idee che circolavano tra i suoi più diretti collaboratori e consiglieri, il
famoso «trust dei cervelli» (braìns-trust) erano improntate a un
radicalismo anti-capitalistico di marca anglosassone, ma non certo
rivoluzionarie. Roosevelt poi non fu mai schiavo dei suoi consiglieri, ma
procedette per tentativi, in modo assai più empirico che sistematico. I metodi
che seguì furono una costante azione di convincimento sull'opinione pubblica,
sull'uomo della strada, affidata alla straordinaria comunicativa del
presidente, e un atteggiamento quasi dittatoriale negli affari di governo,
affidati di solito a uomini di fiducia, a organismi appositamente creati
anziché ai ministri ufficiali. I risultati furono un'applicazione solo parziale
e saltuaria dei principi enunciati, ma, in compenso, un effettivo rilancio su
nuove fondamenta del sistema economico capitalista. Giustamente lo stesso
Roosevelt poteva affermare alla vigilia della sua rielezione nel 1936: «È la
mia amministrazione che ha salvato il sistema economico fondato sul profitto
privato e sulla libera impresa, che lo ha allontanato dall'orlo dell'abisso sul
quale l'avevano condotto quegli stessi che oggi in suo nome cercano di
diffondere la paura».
cit. da A. siegfried, Panorama degli Stati
Uniti, tr. it. di L. Sozzi, Bari, Laterza 1956.
Quando iniziò
la presidenza di Roosevelt la crisi toccava il suo punto più grave. Egli
inaugurò la sua opera di risanamento con una serie di misure monetarie
(abbandono della parità aurea e svalutazione del dollaro, immissione di carta
moneta nel sistema finanziario) allo scopo di ristabilire una certa
circolazione di moneta. Nello stesso tempo egli vide la necessità di ricreare
anche artificialmente la capacità d'acquisto del paese, adottando una politica
di premi, sovvenzioni, lavori pubblici, sussidi di disoccupazione, creazione di
nuovi impieghi. Tutto ciò significava accrescere e rendere permanente il deficit
statale allo scopo di evitare una ulteriore riduzione dei consumi (era la
tecnica del deficit-spending, detta anche keynesiana, dal nome
dell'economista inglese J. M. Keynes [1883-1946], che la giustificò a livello
teorico). Le pratiche di Roosevelt, affidate dunque a un'inflazione controllata
e all'aumento del deficit statale, dettero risultati assai più soddisfacenti
delle politiche tradizionali di tipo deflazionistico (basate cioè sulla
difesa della moneta a scapito dei salari e dell'occupazione) applicate in
quegli stessi anni in Francia, Germania e Italia.
Più in generale
il « New Deal » cercò anche di affrontare i gravi problemi sociali connessi con
la crisi economica, e in specie quello della disoccupazione, ricorrendo a un
energico intervento statale sull'economia, attuato mediante una serie di enti
pubblici. Tra essi, la National Recovery Administration (NRA), ente per
la ricostruzione nazionale, prevedeva una ristrutturazione industriale operata
con l'aiuto statale a quelle industrie che si impegnassero ad osservare un
«codice», concordato tra operai e padroni (relativo ai minimi salariali, ai
contratti di lavoro, alla concorrenza, alla produzione). In tal modo si
ottenevano vari effetti: il definitivo riconoscimento delle organizzazioni
sindacali, la difesa dei salari (con salari minimi garantiti), l'aumento dei
posti di lavoro e la riduzione degli orari; per altro verso, si ammettevano,
anzi si incoraggiavano, accordi tra industriali per sostenere i prezzi, in
deroga alle leggi antitrust. Sempre nel campo del lavoro, fu enormemente
incrementato l'intervento assistenziale dello Stato a favore di disoccupati,
inabili e vecchi, mediante un sistema di previdenza. La disoccupazione fu a
poco a poco riassorbita anche con l'ausilio di un decisivo impegno statale
nelle opere pubbliche, come il risanamento idrico e ambientale di intere
regioni (come la valle del Tennessee, affidata alla Tennessee Volley
Administration, TVA). In campo agricolo, furono scoraggiate certe
produzioni eccedenti, sostenuti i prezzi e agevolati i pagamenti di ipoteche,
mediante l’Agricultural Adjustement
Administration (AAA). Venne altresì riorganizzato il sistema
bancario e posto sotto rigidi controlli il mercato borsistico.
Da un punto di
vista strettamente economico l'obiettivo di Roosevelt fu quello di mantenere un
equilibrio tra risparmio, investimenti e consumi, evitando riduzioni di
investimenti e allargando i consumi; da un punto di vista sociale si preoccupò
di accrescere il tenore di vita dei lavoratori, anche rafforzando le
organizzazioni sindacali.
L'opposizione
dell'alta finanza e dei ceti più conservatori alla politica rooseveltiana fu
molto violenta e trovò una certa eco nella Corte Suprema, impressionata dal
modo di procedere spregiudicato del presidente. Già nel 1935 essa giudicò
incostituzionale la NRA e altre disposizioni; quindi, con una serie mai vista
di decisioni, annullò alcune delle principali riforme del New Deal. Il lungo
braccio di ferro tra il presidente e la Corte si risolse con vari compromessi
che però affossavano le leggi rooseveltiane più avanzate e innovatrici. Di
fronte anche agli incombenti problemi di politica estera (imperialismo
giapponese nel Pacifico, ascesa di Hitler in Europa) la tensione morale e gli
entusiasmi del New Deal cedevano il passo a preoccupate inquietudini. Nel
complesso, però, gli USA uscivano da quell’esperienza notevolmente trasformati,
anche da un punto di vista politico: «Con un partito democratico che aveva
rovesciato le sue tradizionali posizioni e che era diventato campione del
dirigismo federale, sostegno del sindacalismo e soprattutto dispensatore di
vantaggi sociali, un fermento nuovo si era introdotto nella politica americana,
e certamente per restarvi. Da questo punto di vista ed anche senza dimenticare
le due guerre mondiali, la grande depressione è forse l'avvenimento più
importante della storia degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione».
A. siegfried, Panorama degli Stati
Uniti, tr. it. di L. Sozzi, Bari, Laterza 1956, p. 233.
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