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Cyrano de Bergerac - IL COPIONE
Quando la sera del 28 dicembre
1867, il Cyrano de Bergerac va in
scena a Parigi al Théatre de la Porte-Saint-Martin, il marsigliese Edmond
Rostand non ha ancora trent’anni.
Rostand apre il suo dramma
andando diretto al cuore della Francia del Grand
Siècle: sceglie, per rappresentano, il più spettacolare rito pubblico collettivo,
una serata del 1640 all’hotel de Bourgogne, per la recita di una favola
pastorale da parte del celebre Montfleury.
Come pezza d’appoggio ha dalla sua
la “lettera aperta” di Cirano all’attore: tre paginette di deliberato dileggio
dell’interprete, fisico sgraziato, testa senza collo sulle spalle, ventre così
grosso da sembrare « il cavallo di Troia farcito di quarantamila uomini ». E
dispone poi di quella notizia, più o meno fondata, dell’assalto dei cento
sicari alla porta di Nesle, puntualmente sgominati dall’impareggiabile
schermidore. Il primo atto del Cyrano sta, dal punto di vista narrativo,
tra questi due episodi:
ma è, drammaturgicamente, un
bellissimo spaccato di “teatro nel teatro”, con la folla di nobili e borghesi
che in festoso disordine prende a gremire l’ex-sala della pallacorda, i ladri
intenti ai loro furti, i paggi ai loro scherzi, le précieuses ai fatui cinguettii, i marchesini alle borie altezzose.
E c’è già in scena, sia pure per pochi istanti, il bello ma rude e timido
Cristiano di Neuvillette; c’è, lassù, sul palco, l’esile profilo di Maddalena
Robin detta Rossana, la bionda orfana borghese insidiata dall’aristocratico
prepotente; c’è il clan di Cirano, l’ardimentoso pasticciere-poeta Ragueneau,
il premuroso e pavido Le Bret, l’ubriacone e sfacciato Lignière. E c’è,
naturalmente, Cirano, prima una voce minacciosa, poi una spada terribile, e due
formidabili tirate: quella del naso con le sue venti varianti; e quella del
duello con l’improvvido Visconte.
Questa seconda è definita dallo
stesso Cirano “ballade”, ballata, con riferimento alla forma metrica omonima:
ma tutt’e due sono piuttosto “arie” musicali, e tutto questo primo atto è
parente stretto, anzi discendente diretto del melodramma, dell’opéra francese.
Mentre un’altra parentela è Rostand stesso a svelarla quando, con un “effetto”
vistoso, fa comparire in scena, per un istante, d’Artagnan che si congratula
con il Nostro: ed è la parentela con il romanzo di cappa e spada alla Dumas
padre, con quei Les trois mousquetaires
che dal 1844 sono uno dei più solidi bestseller europei. La terza filiazione,
se così vogliamo chiamarla, si palesa invece nelle scene più raccolte, più
intime, in chiusura d’atto, tra Cirano e Le Bret, nella prima gran confessione
da parte dell’eroe del dissidio bruttezza-amore: ed è la filiazione del dramma
romantico alla Hugo, che questo stesso tema aveva modulato, ad esempio, in Le roi s’amuse (1832: si pensi ai
buffone-gobbo Triboulet, che all’epoca dei Cyrano si è già tramutato da quarantasette
anni nei verdiano Rigoletto).
Il secondo atto non
sembra, invece, appoggiarsi a qualche concreto documento sull’esistenza del
vero Cyrano né riecheggiare qualche aspetto della sua leggenda. E’ frutto della
pura fantasia di Rostand: non senza, tuttavia, ch’essa si nutra del richiamo a
precise costumanze della Francia a caval di secolo: nelle quali il pubblico dei
Théatre de la Porte-Saint-Martin istintivamente e affettuosamente si
specchiava. La prima è quella invalsa sul finire dell’Ottocento di attribuite
ai grandi “ouvroirs”, agli imponenti
laboratori dei celebri rosticcieri-pasticcieri del centro di Parigi, la funzione
di veri e propri crocevia mondani, in cui periodicamente incontrarsi e, come
suggeriscono oggi i sociologi, “riconoscersi” (quello, immaginario, di Ragueneau
è situato, non a caso, all’angolo di rue Saint-Honoré). La seconda è la
consuetudine, anzi la moda, spinta in certi casi a livelli di parossistico
esibizionismo, delle letture private di poesia, alle quali davano il loro
contributo sul versante creativo tutti gli scrittori, maggiori e minori,
dell’epoca. : e, su quello interpretativo, proprio un attore come Coquelin,
finissimo e appassionato dicitore di versi per pochi eletti ed in ambiente raccolto.
Nella “rosticceria dei poeti” le due costumanze si fondono in una sola, in
quella vasta scena corale (ancora una volta, operistica) in cui Ragueneau
amministra versi al pubblico in pretto stile arcadico e cibarie ai poetastri denutriti,
nerastri, scalcagnati, inzaccherati, come si conviene a chi ha le Muse
benevoli, ma la vita matrigna. Il tono di affettuosa parodia di questo secondo
affresco scenico non solo non è stridente, ma introduce felicemente alla scena
tra Rossana e Cirano, di difficile trattamento, per quel misto di adolescenziali
rimembranze (« Era il tempo dei giochi, delle more amarognole », è divenuta per
il francese colto una frase fatta) e di maturo equivoco e dispetto: e prepara
molto bene alla due “arie” successive di Cirano, ovviamente a contrasto, tanto
sono altezzose e passionali: quella della presentazione, alla picara, dei “cadets de Gascogne” (poeticamente
modesta, anche se di grosso effetto) e quella, altrimenti ambiziosa quanto a
scrittura, del “non, merci”, cioè
della libertà orgogliosamente difesa e pagata a caro prezzo. Sul finire dell’atto,
nell’incontro tra Girano e Cristiano, Rostand mette a segno la trovata
drammaturgica più suggestiva dell’intera partitura, quella di fare di due
nature dimidiate - il bell’afasico e il brutto loquace e liricamente rapinoso -
una sola natura a tutto sesto: e con essa tentare, in equilibrio instabile, la
conquista dell’amoroso femminino.
E il colpo di scena che
introduce, in un godibile clima di suspense,
al terzo atto, emblematicamente racchiuso tutto nel titolo, Il bacio di Rossana. Dicono i
testimoni della prima che in quest’atto, e in particolare nella scena che lo
vedeva impegnato a sedurre Rossana per interposta persona, Coquelin, che era
piccolo, grassottello, con le gambe arcuate, e con un naso volto all’insù del
tutto cyraniano (aveva colpito, come si può leggere nei Ritratti letterari,
anche il nostro De Amicis), si trasfigurasse e divenisse, per virtù d’immedesimazione,
stranamente bello. Al di là della fondatezza della testimonianza, questo è
certo l’atto che ha alimentato, in questi novant’anni o poco meno, la
strepitosa fortuna del Cyrano in tutto il mondo e nelle più disparate versioni
(dall’opera lirica al musical, dal
film allo sceneggiato televisivo). Tuttavia, occorre ammetterlo, pur
nell’indubbio divertimento teatrale di quella scena di scambio di persona, pur
nel fascino di quella seduzione tutta di parola e in netto crescendo, sino al climax della definizione del bacio nelle
sue Otto (stavolta) varianti, questo terz’atto soffre un poco dell’intimismo
stesso di cui è, per ovvie ragioni, permeato. Qui, nella notturna sequenza tra
giardino e verone di una vecchia casa piccolo borghese, su una piccola piazza
del vecchio Marais, il drammaturgo trova semmai i suoi accenti migliori nel
registro dell’ironia: l’ironia sociale, neppur troppo lieve, con cui vela (e
certo ridimensiona) la figura di Rossana; e quella fantastica, con cui
affettuosamente rivisita itinerari lunari e marchingegni spaziali de’ L’Autre Monde, nella scena
conclusiva tra Cirano e De Guiche.
Nel quarto atto, Rostand sembra
essere di nuovo perfettamente a suo agio, alle prese con i cadetti di Guascogna
asserragliati una scarpata, mentre le mura e le torri di Arras assediata si
stagliano sullo sfondo. Ma, stavolta, la grande scena en plein-air non gli riesce: la retorica inficia l’atmosfera che
dovrebbe esser veristica, tra la fame e la stanchezza d’una truppa in
battaglia. Del tutto romanzesco, anche se giustificato da esigenze narrative, è
anche il sopraggiungere di Rossana, che fende con la sua carrozza-credenza le
truppe spagnole: e al limite del ridicolo quell’improvvisato convito, con
Ragueneau cuoco-cocchiere, a base di patés,
piatti freddi, vini prelibati. Per fortuna c’è quel grumo duro di
incontri-scontri tra Cirano, Cristiano e Rossana: la scoperta da parte di
Cristiano della sostituzione nella scrittura (cioè, nella quotidiana
reinvenzione dell’amore) di Cirano a se stesso; la conferma a Cristiano da
parte di Rossana della riscoperta di quell’altro da lui (che è poi Cirano) e
della esaltazione per costui sino ad accettarne un’ipotetica (ma reale, nei
fatti) bruttezza; la decisione di Cristiano di scomparire, forse di darsi la
morte, ora che l’amato (anche se a insaputa dell’amante Rossana) è l’altro da
se, è il brutto, è appunto Cirano; la breve estasi di quest’ultimo dinnanzi al
miraggio e la sua altrettanto rapida e bruciante delusione alla morte di Cristiano
(che non sarà stata consapevolmente cercata, ma certo è uno sbocco inconscio,
il solo possibile, per chi è « stanco di portare in se stesso un rivale ». In
queste tre scene (l’ottava, la nona, la decima del quarto atto) Rostand si
rivela non solo un uomo di teatro di grande efficacia, ma uno scrittore di
insospettata finezza, per la rapidità e, si vorrebbe dire, la lucida
spietatezza con cui manovra quel triangolo che, più che d’amore, sembra
discorrere di un altro (e ben altrimenti nostro contemporaneo) problema: quello
dell’ambigua e labile identità.
Il resto, cioè il quinto atto,
la cosiddetta Gazzetta di Cirano, è mero epilogo: lo si ricorda, non tanto per
la trovata conclusiva, prevedibile, della scoperta da parte di Rossana del vero
amante, quanto per quel clima autunnale, che è al tempo stesso di natura e
d’anima tra l’intimista e il simbolista, del parco conventuale: « È autunno.
Tutto il fogliame è rosso sulle erbe fresche ». Declinando il motivo
dell’autunno su uno sfondo di misticismo ingenuo (tale è il senso del coro di
quelle monache-bambine) e su esso innestando il tramonto dell’eroe, tra soprassalti
di fantasie lunari e apparizioni moralistico-allegoriche, Rostand paga il suo
tributo al gusto lirico imperante: anche per questa via affascina il suo
pubblico, lo conquista echeggiando motivi che gli sono familiari.
Il successo è immediato:
Francisque Sarcey lo sancisce in una recensione “definitiva”.
Guido Davico Bonino
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