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IL PENSIERO E
LA POETICA DI LEOPARDI
• Fin
dall’infanzia Leopardi soffriva di un grande senso di solitudine e di
oppressione a causa dell’atmosfera provinciale, chiusa e soffocante di Recanati
e del carattere freddo e severo dei genitori. Col passare degli anni questa
sofferenza non poteva che aggravarsi finché, nel 1819, in un periodo in cui
erano forti i contrasti con il padre e la madre che volevano che intraprendesse
la carriera ecclesiastica, il poeta, allora ventunenne, tentò di fuggire di
casa ma non ci riuscì. Questo fallimento, unito alla malattia agli occhi, lo
fece precipitare in una grave crisi - oggi diremmo «depressiva» - e lo spinse a
cupe meditazioni sull’infelicità umana.
• Proprio nel
1819 si compì la seconda conversione (dopo quella del 1816 «dall’erudito al
bello»), quella che l’autore stesso definì «dal bello al vero», ossia il
passaggio dall’immaginazione propria delle civiltà antiche, intessuta di miti e
di fantasia, alla poesia sentimentale, «giacché il sentimentale è fondato e
sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle
cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva poesia l’essere ispirata
dal falso».
• Senza
rinnegare l’importanza della poesia antica, Leopardi in questi anni si stava
però avvicinando alla cultura e alla sensibilità del suo tempo, grazie alle
letture di molti autori contemporanei tra i quali Goethe, Chateaubriand, Madame
de Stael, di Breme, Berchet, De Vigny. La sua poesia cominciò a orientarsi
decisamente verso la riflessione esistenziale, centrale nel pensiero e nella
poetica dei maggiori poeti romantici europei (Hölderlin,
Byron, Shelley).
• Intorno al
1820 Leopardi cominciò a elaborare una propria poetica personale che resterà
alla base di tutta la sua produzione successiva. Questa poetica trova il suo
fondamento nella «teoria del piacere» formulata nelle pagine dello Zibaldone:
in essa Leopardi accoglie dal sensismo illuministico una concezione materiale
della vita, secondo la quale lo scopo dell’esistenza umana è il raggiungimento
della felicità intesa come gioia, piacere, appagamento. Ma la felicità così
concepita, ammesso anche che risponda alle aspettative umane, è sempre
destinata a svanire sotto l’incalzare della delusione, del dolore, della morte.
Ne consegue che il piacere, un bene così vago e inconsistente eppure così
inseguito, può esistere solo nel ricordo (di un piacere vissuto) o nell’attesa
(di un piacere che verrà). E così la vita umana trascorre nel desiderio, in un
continuo alternarsi di felicità, anzi di illusione di felicità e delusione,
dolore e noia, tra tutti i mali il più grave, perché nasce dal senso di vuoto,
di aridità spirituale.
• I1 passaggio «dal bello al
vero» coincide con la composizione dei primi idilli (in greco «idillio»
significa «piccola immagine», «bozzetto» in genere di paesaggio naturale).
Domina in questi componimenti la poetica del lontano, di quel vago e indefinito
che può essere recuperato dal ricordo Nei primi idilli Leopardi attinge ai
ricordi della sua infanzia e adolescenza, rivive le sensazioni di allora (le
«situazioni, affezioni, avventure dell’animo mio»). Si chiamano «idilli» perché
sono componimenti di impronta classica, ma a differenza degli idilli dei poeti
greci, che consistevano in brevi descrizioni di spettacoli naturali, quelli di
Leopardi prendono spunto dalla contemplazione della natura (una siepe che
impedisce la vista dell’orizzonte, una notte di luna, una mattina di pioggia)
per ricavarne una riflessione esistenziale.
• Questo tipo
di riflessione basata sul valore attribuito al passato continua nelle canzoni filosofiche, composte tra il
1820-23, che presentano motivi fondamentali nella poesia leopardiana, quali il
rimpianto dell’età passata e la condanna del presente, fiacco e corrotto.
Alcune in particolare (Inno ai Patriarchi
e Alla primavera o delle favole antiche)
esaltano un mondo primordiale in cui la natura è madre affettuosa e benevola
nei confronti dell’uomo, ancora ignaro dell’«arido vero».
• Alla base
di questa concezione c’è lo scontro tra due principi, quello di natura e quello
di ragione: la natura ha creato gli uomini felici mentre, col progredire della
civiltà, la ragione li ha resi deboli e infelici, quindi se la natura è il
regno del bello, delle illusioni, della poesia, degli eroici entusiasmi, la ragione
è il dominio del vero che distrugge i sogni e le illusioni. L’uomo, quindi,
divenendo adulto, man mano che aumenta la sua capacità di ragionare, si
distacca dalla felice e inconsapevole condizione naturale della sua infanzia e
procede inevitabilmente verso una condizione di cosciente dolore.
• È un
destino che non riguarda solo gli esseri umani, ma anche le civiltà:
inizialmente vitali ed esuberanti, anch’esse decadono man mano che avanzano
verso più alti gradi di sviluppo. Per questa prima fase del pessimismo
leopardiano si parla quindi di pessimismo storico, perché determinato
dal confronto tra la decadenza dell’epoca presente e la vitalità dei tempi
antichi.
• Le Operette morali, scritte tra il 1824 e
il 1832, scandiscono le tappe del pessimismo leopardiano: la vana ricerca della
felicità da parte dell’uomo (Storia del
genere umano), l’inesistenza del piacere (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), il desiderio
della morte (Cantico del gallo silvestre),
la speranza nel futuro che si ignora (Dialogo
di un venditore di almanacchi e di un passeggere, 1832), la polemica contro
le «verità del secolo» diciannovesimo (Dialogo
di Tristano e di un amico, 1832).
• Aderendo ai
presupposti dell’Illuminismo, secondo i quali l’universo e gli esseri viventi
non sono che materia soggetti a un incessante ciclo di nascita e di morte,
Leopardi era giunto alla conclusione che la stessa natura, proprio in virtù
delle sue leggi, è persecutrice e nemica degli esseri viventi (Dialogo della natura e di un Islandese).
La natura inganna l’uomo promettendogli una felicità che non concede mai,
allettandolo con le illusioni, mentre la sola certezza è la morte. La natura,
madre benevola delle canzoni filosofiche
di appena due anni prima, diventa matrigna nelle Operette. Questa fase del pensiero di Leopardi viene definita pessimismo
cosmico in quanto il poeta sottopone tutto il creato e l’umanità a un’unica
e spietata legge di dolore.
• Tra il 1828 e il 1830 nascono i
grandi idilli leopardiani, la cui
poetica è in parte riconducibile a quella dei piccoli idilli degli anni
giovanili, con alcune importanti differenze. Nei grandi idilli la natura ha
irrimediabilmente perduto il volto di madre benefica per assumere quello di
crudele matrigna; il motivo della rimembranza. Del ricordo, acquista maggior
complessità e temi nuovi, rispetto agli idilli del 1819-1821. La consapevolezza
del vero e il pessimismo assoluto a cui il poeta era approdato nel le Operette morali non impediscono il
ritorno alla poesia idillica, che recupera le illusioni de1 passato, dell’età
felice della fanciullezza, ma lo caricano dei toni amari scaturiti dalla
consapevolezza della definitiva caduta delle speranze giovanili e dalla
riflessione sul destino infelice dell’uomo.
Nell’ultima stagione della poesia
leopardiana la scoperta del vero acquista significati nuovi: ora il poeta
sostiene che è necessario prendere coscienza del vero e smascherare i falsi
miti della civiltà moderna. Se prima aveva ritenuto la scienza e la filosofia
responsabili della perdita delle illusioni e quindi dell’infelicità dell’uomo e
le aveva accusate di scoprire il vero, adesso le ritiene responsabili di
mistificare il vero, cioè di ingannare l’uomo promettendo una felicità futura e
un progresso illimitato. È, infatti, contro il progresso e la società moderna
la satira Palinodia al marchese Gino
Capponi, del 1835.
All’ottimismo
positivista, al mito ottocentesco del progresso scientifico, Leopardi oppone la
convinzione secondo la quale non può essere il progresso scientifico e
tecnologico a garantire la felicità, a migliorare la vita dell’uomo, ma solo un
progresso civile fondato su valori quali la solidarietà e la fratellanza.
Questo è il motivo dominante della Ginestra
(1836), nella quale il poeta esorta gli uomini ad avere il coraggio di guardare
in faccia la loro reale condizione e a unirsi in una «social catena» per
combattere il loro unico vero nemico, il dolore insito nella natura delle cose.
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