domenica 12 maggio 2013

LA GRANDE CRISI DEL 1929 IN AMERICA E IL « NEW DEAL »


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LA GRANDE CRISI DEL 1929 IN AMERICA E IL « NEW DEAL »

Quando, nel marzo 1929, il repubblicano Hoover assunse la presidenza degli USA, il paese aveva apparentemente raggiunto il culmine della ricchezza e della potenza.
In un'atmosfera di folle ottimismo, i corsi della borsa di Wall Street, la maggiore del mondo, salivano rapidamente; tutti si buttavano negli affari o nelle speculazioni. L'economia statunitense non soltanto operava ormai a livello continentale, subordinando a sé con l'esportazione di capitali e con lo sfruttamento delle risorse locali gran parte dell'America latina, ma trascinava dietro di sé, direttamente o indirettamente, tutto il sistema economico occidentale. Il motto di Hoover, «la prosperità è all'angolo della strada», fu preso per vero, e ci si comportò di conseguenza.
All'improvviso, in ottobre, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò la crisi, che doveva manifestarsi come la più grave della storia americana, e tale da riflettersi pesantemente su tutto il mondo occidentale, con conseguenze incal­colabili. Essa assunse all'inizio l'aspetto di un generale crollo delle azioni di borsa: il crack di Wall Street. Ma non si trattava soltanto, come molti credettero (o sperarono) di una semplice crisi di borsa, per quanto tragica. Essa si allargò in alcuni mesi a tutta l'economia, con il crollo delle attività produttive, il blocco dei commerci, i milioni di disoccupati, l'annientamento della capacità d'acquisto delle masse. L'America e il mondo si chiesero di che si trattasse: di una delle note crisi cicliche o di una crisi del sistema capitalista ?
« Sembra indiscusso - scrive un famoso economista americano - che nel 1929 l'economia era fondamentalmente malsana... Molte erano le cose che non andavano bene, ma cinque punti deboli devono avere esercitato un influsso particolarmente profondo sul disastro finale. Eccoli:
1. La cattiva distribuzione del reddito. Sembra certo che il 5 per cento della popolazione con i redditi più elevati ricevesse approssimativamente un terzo dell'intero reddito personale.
[Questa concentrazione delle ricchezze faceva sì che l'economia americana si fondasse su un alto volume di investimenti e di consumi di lusso. Nello stesso tempo però, all'aumento della capacità produttiva determinata dall'alto volume di investimenti, non corrispondeva una parallela crescita delle possibilità di consumo nelle masse, benché i consumi venissero sollecitati con le vendite a rate o con le facilitazioni creditizie. Questo fondamentale squilibrio tra investimenti, produzione e consumi è dimostrato da un dato significativo: tra il 1919 e il 1929 la produzione per lavoratore nelle industrie manifatturiere era aumentata del 43 per cento, mentre salari. stipendi e prezzi erano rimasti tutti relativamente stabili].
2. La cattiva struttura delle società per azioni [queste avevano assunto carattere speculativo ed erano tutte intrecciate tra loro in complessi sistemi monopolistici. che sfuggivano a qualsiasi controllo].
3. La cattiva struttura bancaria. Quando una banca falliva le disponibilità di altre venivano congelate, e ciò per i depositanti era il segno ammonitore dell'opportunità di andare a chiedere il proprio denaro. Così un fallimento ne tirava altri, e il movimento si diffondeva con effetto di domino.
4. Lo stato dubbio della bilancia dei pagamenti. [A partire dalla guerra, le esportazioni americane erano sempre state eccedenti sulle importazioni. Per permettere ai paesi esteri, soprattutto Germania e America latina, di coprire i loro deficit derivanti dalle importazioni americane, i capitalisti e i finanzieri statunitensi avevano concesso grossi prestiti alle amministrazioni pubbliche straniere, spesso in modo sconsiderato e ricorrendo alla corruzione, come nel caso dei dittatori centro e sud-americani. Ma questa politica, già altamente rischiosa, non poteva durare in eterno, tanto più che l'accentuato protezionismo americano non lasciava negli USA sbocchi commerciali agli altri paesi. Così anche le esportazioni americane decrebbero, venendo a colpire specialmente gli agricoltori, già sacrificati dalla caduta dei prezzi e da una  lunga stagnazione].
5. Il misero stato dell'informazione economica [la politica economica era ancora dominata dal mito del pareggio del bilancio statale anche a costo della disoccupazione, dalla paura dell'inflazione, dal dogma dell'agganciamento del dollaro all'oro. Ciò ritardò i provvedimenti necessari per limitare la crisi].
J. K. galbraith, Il grande crollo, tr. it. di A. Guadagnin, Milano, ed. Comunità 1962, pp. 193 sgg.
Dopo il grande crollo di Wall Street venne dunque la grande depressione. Essa durò in tutto quasi un decennio e costrinse a rivedere, sia in pratica sia in teoria, i fondamenti stessi che reggevano un sistema economico entrato in così grave crisi per un eccesso di produzione rispetto alle possibilità di consumo, mentre la grande maggioranza dell'umanità viveva in condizioni di povertà endemica.
A iniziare dal 1930 la disoccupazione dilagò negli USA e nei maggiori paesi industriali (Gran Bretagna e Germania in testa), per raggiungere nel 1932 la cifra di 12 milioni di senza lavoro nei soli Stati Uniti: qui più di cinquemila banche avevano chiuso gli sportelli, i fallimenti di industrie ammontavano a 32 mila, i prezzi agricoli erano crollati ai livelli più bassi del secolo, il reddito nazionale si era dimezzato, la produzione industriale era scesa a un quinto, gli investimenti a meno di un decimo. Nel 1933 la disoccupazione salì ancora, fino a colpire un terzo della forza lavoro.
Il presidente Hoover, che cercò di affrontare la crisi con i tradizionali strumenti di politica economica, ne fu travolto. Nelle elezioni del 1932 risultò eletto a grande maggioranza il democratico Franklin Delano Roosevelt (1933-1945). Ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca egli si era formalmente impegnato a seguire un nuovo metodo, anzi a stringere un «nuovo patto » (New Deal) con il popolo americano. Si trattava a suo avviso di rifondare su nuove basi la società americana, di rinunciare ad alcuni dogmi che l'avevano retta fino allora, di sostituire un'« economia pianificata» allo sfrenato individualismo economico, una società di massa organizzata all'anarchismo, uno Stato del benessere (Welfare State) allo Stato indifferente di fronte agli squilibri sociali e agli interessi privati.
Si intuisce facilmente come i principi, i metodi e i risultati del New Deal rooseveltiano fossero oggetto di molte polemiche e ancor oggi di varie interpretazioni. Le idee che circolavano tra i suoi più diretti collaboratori e consiglieri, il famoso «trust dei cervelli» (braìns-trust) erano improntate a un radicalismo anti-capitalistico di marca anglosassone, ma non certo rivoluzionarie. Roosevelt poi non fu mai schiavo dei suoi consiglieri, ma procedette per tentativi, in modo assai più empirico che sistematico. I metodi che seguì furono una costante azione di convincimento sull'opinione pubblica, sull'uomo della strada, affidata alla straordinaria comunicativa del presidente, e un atteggiamento quasi dittatoriale negli affari di governo, affidati di solito a uomini di fiducia, a organismi appositamente creati anziché ai ministri ufficiali. I risultati furono un'applicazione solo parziale e saltuaria dei principi enunciati, ma, in compenso, un effettivo rilancio su nuove fondamenta del sistema economico capitalista. Giustamente lo stesso Roosevelt poteva affermare alla vigilia della sua rielezione nel 1936: «È la mia amministrazione che ha salvato il sistema economico fondato sul profitto privato e sulla libera impresa, che lo ha allontanato dall'orlo dell'abisso sul quale l'avevano condotto quegli stessi che oggi in suo nome cercano di diffondere la paura».
cit. da A. siegfried, Panorama degli Stati Uniti, tr. it. di L. Sozzi, Bari, Laterza 1956.
Quando iniziò la presidenza di Roosevelt la crisi toccava il suo punto più grave. Egli inaugurò la sua opera di risanamento con una serie di misure monetarie (abbandono della parità aurea e svalutazione del dollaro, immissione di carta moneta nel sistema finanziario) allo scopo di ristabilire una certa circolazione di moneta. Nello stesso tempo egli vide la necessità di ricreare anche artificialmente la capacità d'acquisto del paese, adottando una politica di premi, sovvenzioni, lavori pubblici, sussidi di disoccupazione, creazione di nuovi impieghi. Tutto ciò significava accrescere e rendere permanente il deficit statale allo scopo di evitare una ulteriore riduzione dei consumi (era la tecnica del deficit-spending, detta anche keynesiana, dal nome dell'economista inglese J. M. Keynes [1883-1946], che la giustificò a livello teorico). Le pratiche di Roosevelt, affidate dunque a un'inflazione controllata e all'aumento del deficit statale, dettero risultati assai più soddisfacenti delle politiche tradizionali di tipo deflazionistico (basate cioè sulla difesa della moneta a scapito dei salari e dell'occupazione) applicate in quegli stessi anni in Francia, Germania e Italia.
Più in generale il « New Deal » cercò anche di affrontare i gravi problemi sociali connessi con la crisi economica, e in specie quello della disoccupazione, ricorrendo a un energico intervento statale sull'economia, attuato mediante una serie di enti pubblici. Tra essi, la National Recovery Administration (NRA), ente per la ricostruzione nazionale, prevedeva una ristruttura­zione industriale operata con l'aiuto statale a quelle industrie che si impegnassero ad osservare un «codice», concordato tra operai e padroni (relativo ai minimi salariali, ai contratti di lavoro, alla concorrenza, alla produzione). In tal modo si ottenevano vari effetti: il definitivo riconoscimento delle organizzazioni sindacali, la difesa dei salari (con salari minimi garantiti), l'aumento dei posti di lavoro e la riduzione degli orari; per altro verso, si ammettevano, anzi si incoraggiavano, accordi tra industriali per sostenere i prezzi, in deroga alle leggi antitrust. Sempre nel campo del lavoro, fu enormemente incrementato l'intervento assistenziale dello Stato a favore di disoccupati, inabili e vecchi, mediante un sistema di previdenza. La disoccupazione fu a poco a poco riassorbita anche con l'ausilio di un decisivo impegno statale nelle opere pubbliche, come il risanamento idrico e ambientale di intere regioni (come la valle del Tennessee, affidata alla Tennessee Volley Administration, TVA). In campo agricolo, furono scoraggiate certe produzioni eccedenti, sostenuti i prezzi e agevolati i pagamenti di ipoteche, mediante l’Agricultural Adjustement Administration (AAA). Venne altresì riorganizzato il sistema bancario e posto sotto rigidi controlli il mercato borsistico.
Da un punto di vista strettamente economico l'obiettivo di Roosevelt fu quello di mantenere un equilibrio tra risparmio, investimenti e consumi, evitando riduzioni di investimenti e allargando i consumi; da un punto di vista sociale si preoccupò di accrescere il tenore di vita dei lavoratori, anche rafforzando le organizzazioni sindacali.
L'opposizione dell'alta finanza e dei ceti più conservatori alla politica rooseveltiana fu molto violenta e trovò una certa eco nella Corte Suprema, impressionata dal modo di procedere spregiudicato del presidente. Già nel 1935 essa giudicò incostituzionale la NRA e altre disposizioni; quindi, con una serie mai vista di decisioni, annullò alcune delle principali riforme del New Deal. Il lungo braccio di ferro tra il presidente e la Corte si risolse con vari compromessi che però affossavano le leggi rooseveltiane più avanzate e innovatrici. Di fronte anche agli incombenti problemi di politica estera (imperialismo giapponese nel Pacifico, ascesa di Hitler in Europa) la tensione morale e gli entusiasmi del New Deal cedevano il passo a preoccupate inquietudini. Nel complesso, però, gli USA uscivano da quell’esperienza notevolmente trasformati, anche da un punto di vista politico: «Con un partito democratico che aveva rovesciato le sue tradizionali posizioni e che era diventato campione del dirigismo federale, sostegno del sindacalismo e soprattutto dispensatore di vantaggi sociali, un fermento nuovo si era introdotto nella politica americana, e certamente per restarvi. Da questo punto di vista ed anche senza dimenticare le due guerre mondiali, la grande depressione è forse l'avvenimento più importante della storia degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione».

A. siegfried, Panorama degli Stati Uniti, tr. it. di L. Sozzi, Bari, Laterza 1956, p. 233.

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