domenica 5 maggio 2013

Cyrano de Bergerac - IL COPIONE

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Cyrano de Bergerac - IL COPIONE

Quando la sera del 28 dicembre 1867, il Cyrano de Bergerac va in scena a Parigi al Théatre de la Porte-Saint-Martin, il marsigliese Edmond Rostand non ha ancora trent’anni.
Rostand apre il suo dramma andando diretto al cuore della Francia del Grand Siècle: sceglie, per rappresentano, il più spettacolare rito pubblico collettivo, una serata del 1640 all’hotel de Bourgogne, per la recita di una favola pastorale da parte del celebre Montfleury.
Come pezza d’appoggio ha dalla sua la “lettera aperta” di Cirano all’attore: tre paginette di deliberato dileggio dell’interprete, fisico sgraziato, testa senza collo sulle spalle, ventre così grosso da sembrare « il cavallo di Troia farcito di quarantamila uomini ». E dispone poi di quella notizia, più o meno fondata, dell’assalto dei cento sicari alla porta di Nesle, puntualmente sgominati dall’impareggiabile schermidore. Il primo atto del Cyrano sta, dal punto di vista narrativo, tra questi due episodi:
ma è, drammaturgicamente, un bellissimo spaccato di “teatro nel teatro”, con la folla di nobili e borghesi che in festoso disordine prende a gremire l’ex-sala della pallacorda, i ladri intenti ai loro furti, i paggi ai loro scherzi, le précieuses ai fatui cinguettii, i marchesini alle borie altezzose. E c’è già in scena, sia pure per pochi istanti, il bello ma rude e timido Cristiano di Neuvillette; c’è, lassù, sul palco, l’esile profilo di Maddalena Robin detta Rossana, la bionda orfana borghese insidiata dall’aristocratico prepotente; c’è il clan di Cirano, l’ardimentoso pasticciere-poeta Ragueneau, il premuroso e pavido Le Bret, l’ubriacone e sfacciato Lignière. E c’è, naturalmente, Cirano, prima una voce minacciosa, poi una spada terribile, e due formidabili tirate: quella del naso con le sue venti varianti; e quella del duello con l’improvvido Visconte.
Questa seconda è definita dallo stesso Cirano “ballade”, ballata, con riferimento alla forma metrica omonima: ma tutt’e due sono piuttosto “arie” musicali, e tutto questo primo atto è parente stretto, anzi discendente diretto del melodramma, dell’opéra francese. Mentre un’altra parentela è Rostand stesso a svelarla quando, con un “effetto” vistoso, fa comparire in scena, per un istante, d’Artagnan che si congratula con il Nostro: ed è la parentela con il romanzo di cappa e spada alla Dumas padre, con quei Les trois mousquetaires che dal 1844 sono uno dei più solidi bestseller europei. La terza filiazione, se così vogliamo chiamarla, si palesa invece nelle scene più raccolte, più intime, in chiusura d’atto, tra Cirano e Le Bret, nella prima gran confessione da parte dell’eroe del dissidio bruttezza-amore: ed è la filiazione del dramma romantico alla Hugo, che questo stesso tema aveva modulato, ad esempio, in Le roi s’amuse (1832: si pensi ai buffone-gobbo Triboulet, che all’epoca dei Cyrano si è già tramutato da quarantasette anni nei verdiano Rigoletto).
Il secondo atto non sembra, invece, appoggiarsi a qualche concreto documento sull’esistenza del vero Cyrano né riecheggiare qualche aspetto della sua leggenda. E’ frutto della pura fantasia di Rostand: non senza, tuttavia, ch’essa si nutra del richiamo a precise costumanze della Francia a caval di secolo: nelle quali il pubblico dei Théatre de la Porte-Saint-Martin istintivamente e affettuosamente si specchiava. La prima è quella invalsa sul finire dell’Ottocento di attribuite ai grandi “ouvroirs”, agli imponenti laboratori dei celebri rosticcieri-pasticcieri del centro di Parigi, la funzione di veri e propri crocevia mondani, in cui periodicamente incontrarsi e, come suggeriscono oggi i sociologi, “riconoscersi” (quello, immaginario, di Ragueneau è situato, non a caso, all’angolo di rue Saint-Honoré). La seconda è la consuetudine, anzi la moda, spinta in certi casi a livelli di parossistico esibizionismo, delle letture private di poesia, alle quali davano il loro contributo sul versante creativo tutti gli scrittori, maggiori e minori, dell’epoca. : e, su quello interpretativo, proprio un attore come Coquelin, finissimo e appassionato dicitore di versi per pochi eletti ed in ambiente raccolto. Nella “rosticceria dei poeti” le due costumanze si fondono in una sola, in quella vasta scena corale (ancora una volta, operistica) in cui Ragueneau amministra versi al pubblico in pretto stile arcadico e cibarie ai poetastri denutriti, nerastri, scalcagnati, inzaccherati, come si conviene a chi ha le Muse benevoli, ma la vita matrigna. Il tono di affettuosa parodia di questo secondo affresco scenico non solo non è stridente, ma introduce felicemente alla scena tra Rossana e Cirano, di difficile trattamento, per quel misto di adolescenziali rimembranze (« Era il tempo dei giochi, delle more amarognole », è divenuta per il francese colto una frase fatta) e di maturo equivoco e dispetto: e prepara molto bene alla due “arie” successive di Cirano, ovviamente a contrasto, tanto sono altezzose e passionali: quella della presentazione, alla picara, dei “cadets de Gascogne” (poeticamente modesta, anche se di grosso effetto) e quella, altrimenti ambiziosa quanto a scrittura, del “non, merci”, cioè della libertà orgogliosamente difesa e pagata a caro prezzo. Sul finire dell’atto, nell’incontro tra Girano e Cristiano, Rostand mette a segno la trovata drammaturgica più suggestiva dell’intera partitura, quella di fare di due nature dimidiate - il bell’afasico e il brutto loquace e liricamente rapinoso - una sola natura a tutto sesto: e con essa tentare, in equilibrio instabile, la conquista dell’amoroso femminino.
E il colpo di scena che introduce, in un godibile clima di suspense, al terzo atto, emblematicamente racchiuso tutto nel titolo, Il bacio di Rossana. Dicono i testimoni della prima che in quest’atto, e in particolare nella scena che lo vedeva impegnato a sedurre Rossana per interposta persona, Coquelin, che era piccolo, grassottello, con le gambe arcuate, e con un naso volto all’insù del tutto cyraniano (aveva colpito, come si può leggere nei Ritratti letterari, anche il nostro De Amicis), si trasfigurasse e divenisse, per virtù d’immedesimazione, stranamente bello. Al di là della fondatezza della testimonianza, questo è certo l’atto che ha alimentato, in questi novant’anni o poco meno, la strepitosa fortuna del Cyrano in tutto il mondo e nelle più disparate versioni (dall’opera lirica al musical, dal film allo sceneggiato televisivo). Tuttavia, occorre ammetterlo, pur nell’indubbio divertimento teatrale di quella scena di scambio di persona, pur nel fascino di quella seduzione tutta di parola e in netto crescendo, sino al climax della definizione del bacio nelle sue Otto (stavolta) varianti, questo terz’atto soffre un poco dell’intimismo stesso di cui è, per ovvie ragioni, permeato. Qui, nella notturna sequenza tra giardino e verone di una vecchia casa piccolo borghese, su una piccola piazza del vecchio Marais, il drammaturgo trova semmai i suoi accenti migliori nel registro dell’ironia: l’ironia sociale, neppur troppo lieve, con cui vela (e certo ridimensiona) la figura di Rossana; e quella fantastica, con cui affettuosamente rivisita itinerari lunari e marchingegni spaziali de’ L’Autre Monde, nella scena conclusiva tra Cirano e De Guiche.
Nel quarto atto, Rostand sembra essere di nuovo perfettamente a suo agio, alle prese con i cadetti di Guascogna asserragliati una scarpata, mentre le mura e le torri di Arras assediata si stagliano sullo sfondo. Ma, stavolta, la grande scena en plein-air non gli riesce: la retorica inficia l’atmosfera che dovrebbe esser veristica, tra la fame e la stanchezza d’una truppa in battaglia. Del tutto romanzesco, anche se giustificato da esigenze narrative, è anche il sopraggiungere di Rossana, che fende con la sua carrozza-credenza le truppe spagnole: e al limite del ridicolo quell’improvvisato convito, con Ragueneau cuoco-cocchiere, a base di patés, piatti freddi, vini prelibati. Per fortuna c’è quel grumo duro di incontri-scontri tra Cirano, Cristiano e Rossana: la scoperta da parte di Cristiano della sostituzione nella scrittura (cioè, nella quotidiana reinvenzione dell’amore) di Cirano a se stesso; la conferma a Cristiano da parte di Rossana della riscoperta di quell’altro da lui (che è poi Cirano) e della esaltazione per costui sino ad accettarne un’ipotetica (ma reale, nei fatti) bruttezza; la decisione di Cristiano di scomparire, forse di darsi la morte, ora che l’amato (anche se a insaputa dell’amante Rossana) è l’altro da se, è il brutto, è appunto Cirano; la breve estasi di quest’ultimo dinnanzi al miraggio e la sua altrettanto rapida e bruciante delusione alla morte di Cristiano (che non sarà stata consapevolmente cercata, ma certo è uno sbocco inconscio, il solo possibile, per chi è « stanco di portare in se stesso un rivale ». In queste tre scene (l’ottava, la nona, la decima del quarto atto) Rostand si rivela non solo un uomo di teatro di grande efficacia, ma uno scrittore di insospettata finezza, per la rapidità e, si vorrebbe dire, la lucida spietatezza con cui manovra quel triangolo che, più che d’amore, sembra discorrere di un altro (e ben altrimenti nostro contemporaneo) problema: quello dell’ambigua e labile identità.
Il resto, cioè il quinto atto, la cosiddetta Gazzetta di Cirano, è mero epilogo: lo si ricorda, non tanto per la trovata conclusiva, prevedibile, della scoperta da parte di Rossana del vero amante, quanto per quel clima autunnale, che è al tempo stesso di natura e d’anima tra l’intimista e il simbolista, del parco conventuale: « È autunno. Tutto il fogliame è rosso sulle erbe fresche ». Declinando il motivo dell’autunno su uno sfondo di misticismo ingenuo (tale è il senso del coro di quelle monache-bambine) e su esso innestando il tramonto dell’eroe, tra soprassalti di fantasie lunari e apparizioni moralistico-allegoriche, Rostand paga il suo tributo al gusto lirico imperante: anche per questa via affascina il suo pubblico, lo conquista echeggiando motivi che gli sono familiari.
Il successo è immediato: Francisque Sarcey lo sancisce in una recensione “definitiva”.

Guido Davico Bonino

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