venerdì 3 maggio 2013

IL PENSIERO E LA POETICA DI LEOPARDI

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IL PENSIERO E LA POETICA DI LEOPARDI

• Fin dall’infanzia Leopardi soffriva di un grande senso di solitudine e di oppressione a causa dell’atmosfera provinciale, chiusa e soffocante di Recanati e del carattere freddo e severo dei genitori. Col passare degli anni questa sofferenza non poteva che aggravarsi finché, nel 1819, in un periodo in cui erano forti i contrasti con il padre e la madre che volevano che intraprendesse la carriera ecclesiastica, il poeta, allora ventunenne, tentò di fuggire di casa ma non ci riuscì. Questo fallimento, unito alla malattia agli occhi, lo fece precipitare in una grave crisi - oggi diremmo «depressiva» - e lo spinse a cupe meditazioni sull’infelicità umana.
• Proprio nel 1819 si compì la seconda conversione (dopo quella del 1816 «dall’erudito al bello»), quella che l’autore stesso definì «dal bello al vero», ossia il passaggio dall’immaginazione propria delle civiltà antiche, intessuta di miti e di fantasia, alla poesia sentimentale, «giacché il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva poesia l’essere ispirata dal falso».
• Senza rinnegare l’importanza della poesia antica, Leopardi in questi anni si stava però avvicinando alla cultura e alla sensibilità del suo tempo, grazie alle letture di molti autori contemporanei tra i quali Goethe, Chateaubriand, Madame de Stael, di Breme, Berchet, De Vigny. La sua poesia cominciò a orientarsi decisamente verso la riflessione esistenziale, centrale nel pensiero e nella poetica dei maggiori poeti romantici europei (Hölderlin, Byron, Shelley).
• Intorno al 1820 Leopardi cominciò a elaborare una propria poetica personale che resterà alla base di tutta la sua produzione successiva. Questa poetica trova il suo fondamento nella «teoria del piacere» formulata nelle pagine dello Zibaldone: in essa Leopardi accoglie dal sensismo illuministico una concezione materiale della vita, secondo la quale lo scopo dell’esistenza umana è il raggiungimento della felicità intesa come gioia, piacere, appagamento. Ma la felicità così concepita, ammesso anche che risponda alle aspettative umane, è sempre destinata a svanire sotto l’incalzare della delusione, del dolore, della morte. Ne consegue che il piacere, un bene così vago e inconsistente eppure così inseguito, può esistere solo nel ricordo (di un piacere vissuto) o nell’attesa (di un piacere che verrà). E così la vita umana trascorre nel desiderio, in un continuo alternarsi di felicità, anzi di illusione di felicità e delusione, dolore e noia, tra tutti i mali il più grave, perché nasce dal senso di vuoto, di aridità spirituale.
• I1 passaggio «dal bello al vero» coincide con la composizione dei primi idilli (in greco «idillio» significa «piccola immagine», «bozzetto» in genere di paesaggio naturale). Domina in questi componimenti la poetica del lontano, di quel vago e indefinito che può essere recuperato dal ricordo Nei primi idilli Leopardi attinge ai ricordi della sua infanzia e adolescenza, rivive le sensazioni di allora (le «situazioni, affezioni, avventure dell’animo mio»). Si chiamano «idilli» perché sono componimenti di impronta classica, ma a differenza degli idilli dei poeti greci, che consistevano in brevi descrizioni di spettacoli naturali, quelli di Leopardi prendono spunto dalla contemplazione della natura (una siepe che impedisce la vista dell’orizzonte, una notte di luna, una mattina di pioggia) per ricavarne una riflessione esistenziale.

• Questo tipo di riflessione basata sul valore attribuito al passato continua nelle canzoni filosofiche, composte tra il 1820-23, che presentano motivi fondamentali nella poesia leopardiana, quali il rimpianto dell’età passata e la condanna del presente, fiacco e corrotto. Alcune in particolare (Inno ai Patriarchi e Alla primavera o delle favole antiche) esaltano un mondo primordiale in cui la natura è madre affettuosa e benevola nei confronti dell’uomo, ancora ignaro dell’«arido vero».
• Alla base di questa concezione c’è lo scontro tra due principi, quello di natura e quello di ragione: la natura ha creato gli uomini felici mentre, col progredire della civiltà, la ragione li ha resi deboli e infelici, quindi se la natura è il regno del bello, delle illusioni, della poesia, degli eroici entusiasmi, la ragione è il dominio del vero che distrugge i sogni e le illusioni. L’uomo, quindi, divenendo adulto, man mano che aumenta la sua capacità di ragionare, si distacca dalla felice e inconsapevole condizione naturale della sua infanzia e procede inevitabilmente verso una condizione di cosciente dolore.
• È un destino che non riguarda solo gli esseri umani, ma anche le civiltà: inizialmente vitali ed esuberanti, anch’esse decadono man mano che avanzano verso più alti gradi di sviluppo. Per questa prima fase del pessimismo leopardiano si parla quindi di pessimismo storico, perché determinato dal confronto tra la decadenza dell’epoca presente e la vitalità dei tempi antichi.
• Le Operette morali, scritte tra il 1824 e il 1832, scandiscono le tappe del pessimismo leopardiano: la vana ricerca della felicità da parte dell’uomo (Storia del genere umano), l’inesistenza del piacere (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), il desiderio della morte (Cantico del gallo silvestre), la speranza nel futuro che si ignora (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, 1832), la polemica contro le «verità del secolo» diciannovesimo (Dialogo di Tristano e di un amico, 1832).
• Aderendo ai presupposti dell’Illuminismo, secondo i quali l’universo e gli esseri viventi non sono che materia soggetti a un incessante ciclo di nascita e di morte, Leopardi era giunto alla conclusione che la stessa natura, proprio in virtù delle sue leggi, è persecutrice e nemica degli esseri viventi (Dialogo della natura e di un Islandese). La natura inganna l’uomo promettendogli una felicità che non concede mai, allettandolo con le illusioni, mentre la sola certezza è la morte. La natura, madre benevola delle canzoni filosofiche di appena due anni prima, diventa matrigna nelle Operette. Questa fase del pensiero di Leopardi viene definita pessimismo cosmico in quanto il poeta sottopone tutto il creato e l’umanità a un’unica e spietata legge di dolore.
• Tra il 1828 e il 1830 nascono i grandi idilli leopardiani, la cui poetica è in parte riconducibile a quella dei piccoli idilli degli anni giovanili, con alcune importanti differenze. Nei grandi idilli la natura ha irrimediabilmente perduto il volto di madre benefica per assumere quello di crudele matrigna; il motivo della rimembranza. Del ricordo, acquista maggior complessità e temi nuovi, rispetto agli idilli del 1819-1821. La consapevolezza del vero e il pessimismo assoluto a cui il poeta era approdato nel le Operette morali non impediscono il ritorno alla poesia idillica, che recupera le illusioni de1 passato, dell’età felice della fanciullezza, ma lo caricano dei toni amari scaturiti dalla consapevolezza della definitiva caduta delle speranze giovanili e dalla riflessione sul destino infelice dell’uomo.
Nell’ultima stagione della poesia leopardiana la scoperta del vero acquista significati nuovi: ora il poeta sostiene che è necessario prendere coscienza del vero e smascherare i falsi miti della civiltà moderna. Se prima aveva ritenuto la scienza e la filosofia responsabili della perdita delle illusioni e quindi dell’infelicità dell’uomo e le aveva accusate di scoprire il vero, adesso le ritiene responsabili di mistificare il vero, cioè di ingannare l’uomo promettendo una felicità futura e un progresso illimitato. È, infatti, contro il progresso e la società moderna la satira Palinodia al marchese Gino Capponi, del 1835.
All’ottimismo positivista, al mito ottocentesco del progresso scientifico, Leopardi oppone la convinzione secondo la quale non può essere il progresso scientifico e tecnologico a garantire la felicità, a migliorare la vita dell’uomo, ma solo un progresso civile fondato su valori quali la solidarietà e la fratellanza. Questo è il motivo dominante della Ginestra (1836), nella quale il poeta esorta gli uomini ad avere il coraggio di guardare in faccia la loro reale condizione e a unirsi in una «social catena» per combattere il loro unico vero nemico, il dolore insito nella natura delle cose.

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