ANALISI DEL TESTO
LA DISUBBIDIENZA DI ALBERTO MORAVIA
In pieno periodo
fascista, quando i valori della borghesia trionfano, Luca Mansi, il
protagonista quindicenne del romanzo La disubbidienza di
Alberto Moravia (1948), si ribella: si ribella alla scuola, alla famiglia, al
desiderio di possesso, al denaro e, in ultima analisi, alla vita stessa. Luca
ha deciso di disobbedire a tutto ciò che sente spaventosamente “normale”.
Nel corso
dell’adolescenza, ogni ostacolo che si presenta assume le dimensioni di una
montagna insormontabile, non tanto agli occhi della ragione, quanto piuttosto
al proprio corpo. Da qui il senso di spossatezza che prende Luca al ritorno
dalla villeggiatura, quando sa di dover attendere agli impegni scolastici con
energie che non ritrova più in sé.
Passate le vacanze nel solito luogo al mare, Luca tornò in
città con la sensazione che non stava bene e si sarebbe presto ammalato. Egli
era cresciuto in maniera anormale negli ultimi tempi e a quindici anni aveva
già la statura di un uomo adulto. Ma le spalle erano rimaste strette e gracili;
e nel viso bianco, gli occhi troppo intensi parevano divorare le guance smunte
e la fronte pallida. Fosse stato consapevole di questa sua gracilità e dei
pericoli che comportava, si sarebbe forse raccomandato ai genitori affinché gli
facessero sospendere gli studi; ma come avviene in una età come la sua in cui
la sensibilità è sveglia e la coscienza ancora assopita, egli non riusciva a
stabilire alcun nesso tra questa indebolita condizione fisica e la sua profonda
ripugnanza per gli studi. Era sempre andato a scuola e gli pareva naturale
continuare ad andarci. Anche se talvolta gli sembrava che le cose che doveva
imparare non gli si presentassero distribuite ordinatamente nell’avvenire,
secondo i giorni e i mesi dell’anno scolastico, ma tutte raccolte davanti a lui,
in una massa ritta e invalicabile, simile ad una montagna le cui lisce pareti
non offrissero alcun appiglio per aggrapparsi e sormontarla. Non era la volontà
che gli mancava, bensì non sapeva che impulso fisico, che coraggio del corpo.
Il quale gli pareva talvolta che gli mancasse disotto, come un cavallo stremato
e ottenebrato dalla fatica sotto il cavaliere che lo sprona invano
Spesso, però, questo corpo si ribellava, quando meno Luca
se l’aspettava, non di fronte ai compiti più gravosi ma per cose da nulla.
Luca, in quel tempo, era soggetto a rabbie improvvise e furiose durante le
quali il suo corpo, già così stremato, pareva bruciare le poche forze che gli
restavano in parossismi di rivolta e di odio. Soprattutto la muta, inerte
resistenza degli oggetti o meglio la propria incapacità a servirsene senza
fatica e senza danno, aveva il potere di gettarlo in queste rabbie devastatrici.
Una scarpa stretta o male allacciata in cui il piede non entrasse
immediatamente, un tram che, recandosi a scuola, gli sfuggisse all’ultimo
momento nonostante una lunga rincorsa, una bottiglia d’inchiostro che per un
gesto brusco si rovesciasse sul quaderno costringendo Luca a ricopiare la
pagina, l’urto impreveduto e doloroso della sua testa contro lo spigolo del
tavolo mentre si rialzava dopo aver raccolto un libro caduto in terra, queste e
altre simili inezie bastavano a metterlo fuori di sé. Allora o imprecava e
digrignava i denti, talvolta giungendo puerilmente fino a percuotere con il
pugno lo spigolo del tavolo o a scagliare in terra la bottiglia d’inchiostro,
oppure scoppiava in un pianto violento in cui pareva sfogarsi tutto un antico
dolore. Egli sentiva che il mondo gli era ostile; e che egli era ostile al
mondo; e gli pareva di condurre una guerra continua ed estenuante contro tutto
ciò che lo circondava.
[…]Un altro accesso di rabbia gli venne in treno, poco
prima dell’arrivo in città, al ritorno dalla villeggiatura. Si era alzato assai
presto e aveva mangiato in fretta, nella casa disfatta, fra i bauli e le valigie.
Mentre inghiottiva una tazza di cattivo latte macchiato di surrogato di caffè,
aveva udito la madre dirgli:
«Mangia, perché il pranzo nei vagoni ristoranti è sempre
molto tardi». L’idea del pranzo nel vagone ristorante, in cui non era mai
stato, gli era subito piaciuta. Gli era sembrato che avrebbe mangiato veramente
di gusto seduto a uno di quei tavolini minuscoli che, talvolta, aveva
intravveduto attraverso i finestrini in altri treni, durante le fermate nelle
stazioni. Immaginava che il pane, la minestra e la carne avrebbero avuto altro
sapore mangiati ad un tavolino vero, con vere posate servite da camerieri,
mentre la campagna sfilava a rovescio sotto i suoi occhi, nella corsa
imperterrita del treno. D’altra parte Luca era sensibilissimo alla considerazione
della gente e al decoro formale della vita. Egli odiava con tutta la forza
dell’animo i pasti consumati sulle ginocchia, negli scompartimenti, tra
cartacce, scorze e rimasugli, con cibi freddi e unti cacciati a forza tra le
valve delle pagnottelle spaccate. Durante questi pasti c’era sempre qualcuno
che, in attesa di recarsi al ristorante, guardava con aria di sufficienza e di
disgusto alla famiglia curva sui cartocci. All’andata questo testimone non era
mancato nella persona di una vecchia signora sdegnosa e ben vestita. Luca si
era accorto di vergognarsi di mangiare e al tempo stesso di vergognarsi della
vergogna. Tra questi sentimenti umilianti aveva appena toccato il cibo.
L’idea di non avere a svolgere carte oliate e divorare
panini gravidi lo rasserenò; e per gran parte del viaggio rimase tranquillo,
osservando la campagna. Venne finalmente il cameriere a raccogliere le prenotazioni
e il padre non prese i biglietti. Luca pensò che si riserbasse per la seconda
serie e tornò a guardare il paesaggio. Udì allora suo padre che diceva: «In
fondo possiamo comprare i cestini a Orvieto... costano molto meno e contengono
cose migliori di quelle che danno al ristorante». Il padre, pronunziando queste
parole, non mostrava alcun sentimento particolare; egli sentì che prendeva
questa decisione non per avarizia bensì per semplice buon senso. Né gli parve
strano che la madre, sempre arrendevole ad ogni deliberazione che comportasse
un’economia, rispondesse con indifferenza: «Come vuoi... io veramente avrei
preferito il ristorante, se non altro per non ungermi le dita». Erano due
persone, insomma, che decidevano d’accordo sopra una cosa senza importanza. E
infatti la discussione durò ancora due minuti, calma e affabile, concludendosi
con la vittoria paterna; vittoria così mite, del resto, da sembrare piuttosto
l’incontro di due menti sorelle al crocevia di due strade molto simili. Ma Luca
concepì lo stesso, pur rendendosi conto che la cosa non era stata decisa in
odio a lui, una grandissima rabbia.
L’offese prima di tutto che nessuno dei due gli chiedesse
il suo parere e che lo trattassero come una specie di oggetto, il quale,
appunto perché è un oggetto, non ha preferenze né idee, né gusti, né volontà.
Provò al tempo stesso una delusione profonda, tanto più scuorante e precipitosa
quanto più si era esaltato all’idea di mangiare nel vagone ristorante. Ma a
tutti questi risentimenti, se ne aggiungeva un altro che non pareva avere
alcuna origine precisa né dipendere da quel particolare contrattempo: il solito
furore che l’assaliva ogni volta che constatava la ribellione e
l’insubordinazione delle cose e delle persone di fronte alla sua volontà.
Questo furore sembrava venir di lontano e divampò ad un tratto, come un fuoco
violento, ardendolo e scuotendolo tutto. Si fece bianco in viso, strinse con
forza i denti e chiuse gli occhi. Si sentiva tutto irrigidito per la gran
rabbia che gli tendeva il corpo; per un momento provò l’impulso di aprire lo
sportello e gettarsi fuori dal treno. Questa tentazione suicida non lo spaventava
né gli pareva assurda; era, come capì, lo sbocco naturale del furibondo senso
di impotenza che lo sconvolgeva. Poi riaprì gli occhi e guardò i genitori. Come
se la rabbia, quale una luce violenta e sgradevole, ne avesse colpito i tratti
in una maniera nuova, gli sembrò di osservarne i caratteri per la prima volta:
bionda e magra sua madre, con un viso angoloso cui il naso grande e la bocca
stretta davano un’aria di autorità e di saggezza; biondo anche suo padre, ma
molle e rotondo, con tratti sfuggenti e bonarii. Per la prima volta egli sentì
la durezza e virtù materne, il buonsenso e la benevolenza paterne come cose non
soltanto esterne a lui ma anche ostili. Con le quali egli non poteva accordarsi
in alcun modo; e gli partivano da centri remoti sui quali egli non poteva
esercitare alcun controllo. Capì, è vero, che, se avesse manifestato il suo
desiderio, essi l’avrebbero subito accolto; forse sua madre, che non amava
tornare sulle decisioni, si sarebbe opposta, ma per poco. Ma capì anche che non
voleva a nessun patto costringerli a fare una cosa a cui non parevano aver
pensato; anche perché quel desiderio gli ispirava adesso a sua volta una certa
quale rabbia, come un impulso assurdo e che non andava preso in considerazione.
Comunque, il fatto più importante non era tanto mangiare nel ristorante o nello
scompartimento, quanto sentire i suoi genitori fatti della stessa materia
ostile e ribelle che avvertiva nelle altre cose. E come le altre cose, con
tutto il loro amore per lui, inaccettabili.
La rabbia, però, nonostante queste riflessioni, non gli
passò: e giunti alla stazione di Orvieto, egli osservò con estrema ripugnanza
suo padre mentre scendeva dal treno, comprava i cestini e tornava trafelato
allo scompartimento. Il padre chiuse con cura lo sportello, tirò su il tavolino
pieghevole fissato sotto il finestrino e vi posò sopra i tre cestini. Poi
domandò a Luca con la premura superficiale e un po’ lamentosa che gli era
propria: «Chino, hai fame? Vuoi mangiare subito? Oppure vuoi che aspettiamo
ancora un poco?». Egli rispose senza voltarsi: «Mangerò quando mangerete voi».
Il treno ripartì; e parve a Luca che la vista della
campagna che scorreva sotto i suoi occhi, calmasse per un poco il suo
risentimento Ma, d’improvviso, venuta da non sapeva dove, una nuova ondata di
rabbia l’investì; e, incapace di contenersi, egli si alzò e uscì dallo
scompartimento. Andò dritto alla latrina, vi entrò e chiuse con furia la porta
sbattendola. Uno specchio era inchiodato sopra il lavandino, egli vi avvicinò
il viso spalancando la bocca, come se urlasse, sebbene in realtà nessuna voce
gli uscisse dalla gola. Ma sentiva che urlava egualmente, senza rumore, con
tutto il proprio corpo convulso. Il treno correva adesso con una violenza
disastrosa infilando uno dopo l’altro gli scambi clamorosi. Tutto tintinnava e
gemeva nell’angusta cabina, le assi di cui era contesto il vagone, il vetro
nell’alveolo del finestrino, la cornice di ottone intorno al vetro, il
bicchiere nel suo sostegno, il pavimento in cui parevano giocare e cozzare
mobili piastre di ferro; Luca stava a bocca aperta con il senso di urlare più
forte del fragore del treno e il suo furore gli pareva il treno stesso che ad
un certo momento dovesse uscire dalle rotaie e volare attraverso la scarpata
per sfracellarsi contro il fianco di una collina.
[...] All’arrivo i genitori non si occuparono più di lui,
indaffarati a metter giù le valigie. Ma come si avviarono all’uscita, tra la
folla dei viaggiatori, lungo il treno fermo, egli capì che non avrebbe mosso
molti passi senza dar prima dello stomaco. La nausea, molto forte, si esprimeva
in lui in un’acquolina acida e in una specie di stimolo incoercibile ad aprire
la bocca. Ecco un vagone, poi un altro, poi un terzo. Da ogni vagone la gente
scendeva giuliva, alacre, lasciando dietro di sé, negli scompartimenti vuoti,
bucce, cartacce, cicche, bottiglie. Ecco un quarto vagone, già del tutto vuoto,
con gli sportelli spalancati. E poi, ecco la locomotiva, con il suo quadrante
gremito di maniglie e di tubi e la bocca rossa della caldaia aperta sullo
sfondo di tutto quel ferro nero. Il macchinista stava affacciato, il viso
affumato e unto, guardando alla gente e mangiando di buon appetito una mezza
pagnotta piena di ciò che parve a Luca una specie di poltiglia gialla e verde:
una frittata di spinaci. Alla vista della frittata, egli provò più forte il
senso di nausea, come se tra quella poltiglia che il macchinista divorava con
tanta ingordigia e la poltiglia che gli fermentava nello stomaco, si fosse ad
un tratto stabilita una corrente di attrazione simpatica allo stesso modo che
tra una calamita e un pezzo di ferro. Ormai erano giunti al paraurti della
locomotiva: egli si appoggiò ad uno dei fanali e vomitò contro la gran macchina
sbuffante. Udì sua madre che diceva con una voce che gli parve molto calma: «Lo
sapevo che non stava bene»; e nello stesso tempo sentì una mano reggergli forte
la fronte. Il padre badava a ripetere in tono bonario: «Non è niente... non è
niente». E lui, pieno di rabbia e di non sapeva che fondo dolore, prese a
singhiozzare forte. Ma mentre lo portavano via, disfatto e singhiozzante, e la
madre gli diceva con voce irritata: «Ma perché piangi... sei quasi un uomo e
ancora piangi», gli parve che l’aver vomitato sulla locomotiva fosse stata una
specie di vendetta contro il treno che inflessibilmente l’aveva riportato in
città, alla scuola e agli studi; allo stesso modo che i genitori,
inflessibilmente, gli avevano negato il vagone ristorante.
ANALISI DEL TESTO
1. Dai un titolo al brano che hai appena letto, ispirandoti,
se vuoi, a una frase del testo.
2. Definisci se il narratore è esterno, interno,
onnisciente e quale punto di vista adotta.
3. Elenca gli oggetti e gli atteggiamenti che determinano
in Luca un senso di nausea. Che cosa li caratterizza?
4. Nei confronti di comportamenti popolari e sciatti della
gente comune quale atteggiamento assume Luca?
5. Che cosa significa, a tuo avviso, il titolo del
romanzo. In cosa consiste questa disubbedienza?
6. Che ruolo svolge per Luca il paesaggio durante il
viaggio in treno?
7. Definisci con rispettivamente con tre aggettivi il
padre e la madre di Luca, motivando le tue scelte.
8. Dai la tua interpretazione alla seguente frase tratta
dal testo: “Soprattutto la muta, inerte resistenza degli oggetti o meglio la
propria incapacità a servirsene senza fatica e senza danno, aveva il potere di
gettarlo in queste rabbie devastatrici.”
9. Spiega in che senso la rabbia e la tentazione suicida
di Luca sono segno della sua impotenza.
10. Immaginate di essere il padre o la madre di Luca e di
scrivere una lettera a un vostro amico, o parente, per sfogarvi o per chiedere
consiglio o per confrontare interventi o soluzioni da mettere in atto con
vostro figlio.
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