sabato 1 giugno 2013

LA DISUBBIDIENZA (A. MORAVIA)





ANALISI DEL TESTO

LA DISUBBIDIENZA DI ALBERTO MORAVIA


In pieno periodo fascista, quando i valori della borghesia trionfano, Luca Mansi, il protagonista quindicenne del romanzo La disubbidienza di Alberto Moravia (1948), si ribella: si ribella alla scuola, alla famiglia, al desiderio di possesso, al denaro e, in ultima analisi, alla vita stessa. Luca ha deciso di disobbedire a tutto ciò che sente spaventosamente “normale”.

Nel corso dell’adolescenza, ogni ostacolo che si presenta assume le dimensioni di una montagna insormontabile, non tanto agli occhi della ragione, quanto piuttosto al proprio corpo. Da qui il senso di spossatezza che prende Luca al ritorno dalla villeggiatura, quando sa di dover attendere agli impegni scolastici con energie che non ritrova più in sé.

Passate le vacanze nel solito luogo al mare, Luca tornò in città con la sensazione che non stava bene e si sarebbe presto ammalato. Egli era cresciuto in maniera anormale negli ultimi tempi e a quindici anni aveva già la statura di un uomo adulto. Ma le spalle erano rimaste strette e gracili; e nel viso bianco, gli occhi troppo intensi parevano divorare le guance smunte e la fronte pallida. Fosse stato consapevole di questa sua gracilità e dei pericoli che comportava, si sarebbe forse raccomandato ai genitori affinché gli facessero sospendere gli studi; ma come avviene in una età come la sua in cui la sensibilità è sveglia e la coscienza ancora assopita, egli non riusciva a stabilire alcun nesso tra questa indebolita condizione fisica e la sua profonda ripugnanza per gli studi. Era sempre andato a scuola e gli pareva naturale continuare ad andarci. Anche se talvolta gli sembrava che le cose che doveva imparare non gli si presentassero distribuite ordinatamente nell’avvenire, secondo i giorni e i mesi dell’anno scolastico, ma tutte raccolte davanti a lui, in una massa ritta e invalicabile, simile ad una montagna le cui lisce pareti non offrissero alcun appiglio per aggrapparsi e sormontarla. Non era la volontà che gli mancava, bensì non sapeva che impulso fisico, che coraggio del corpo. Il quale gli pareva talvolta che gli mancasse disotto, come un cavallo stremato e ottenebrato dalla fatica sotto il cavaliere che lo sprona invano
Spesso, però, questo corpo si ribellava, quando meno Luca se l’aspettava, non di fronte ai compiti più gravosi ma per cose da nulla. Luca, in quel tempo, era soggetto a rabbie improvvise e furiose durante le quali il suo corpo, già così stremato, pareva bruciare le poche forze che gli restavano in parossismi di rivolta e di odio. Soprattutto la muta, inerte resistenza degli oggetti o meglio la propria incapacità a servirsene senza fatica e senza danno, aveva il potere di gettarlo in queste rabbie devastatrici. Una scarpa stretta o male allacciata in cui il piede non entrasse immediatamente, un tram che, recandosi a scuola, gli sfuggisse all’ultimo momento nonostante una lunga rincorsa, una bottiglia d’inchiostro che per un gesto brusco si rovesciasse sul quaderno costringendo Luca a ricopiare la pagina, l’urto impreveduto e doloroso della sua testa contro lo spigolo del tavolo mentre si rialzava dopo aver raccolto un libro caduto in terra, queste e altre simili inezie bastavano a metterlo fuori di sé. Allora o imprecava e digrignava i denti, talvolta giungendo puerilmente fino a percuotere con il pugno lo spigolo del tavolo o a scagliare in terra la bottiglia d’inchiostro, oppure scoppiava in un pianto violento in cui pareva sfogarsi tutto un antico dolore. Egli sentiva che il mondo gli era ostile; e che egli era ostile al mondo; e gli pareva di condurre una guerra continua ed estenuante contro tutto ciò che lo circondava.
[…]Un altro accesso di rabbia gli venne in treno, poco prima dell’arrivo in città, al ritorno dalla villeggiatura. Si era alzato assai presto e aveva mangiato in fretta, nella casa disfatta, fra i bauli e le valigie. Mentre inghiottiva una tazza di cattivo latte macchiato di surrogato di caffè, aveva udito la madre dirgli:
«Mangia, perché il pranzo nei vagoni ristoranti è sempre molto tardi». L’idea del pranzo nel vagone ristorante, in cui non era mai stato, gli era subito piaciuta. Gli era sembrato che avrebbe mangiato veramente di gusto seduto a uno di quei tavolini minuscoli che, talvolta, aveva intravveduto attraverso i finestrini in altri treni, durante le fermate nelle stazioni. Immaginava che il pane, la minestra e la carne avrebbero avuto altro sapore mangiati ad un tavolino vero, con vere posate servite da camerieri, mentre la campagna sfilava a rovescio sotto i suoi occhi, nella corsa imperterrita del treno. D’altra parte Luca era sensibilissimo alla considerazione della gente e al decoro formale della vita. Egli odiava con tutta la forza dell’animo i pasti consumati sulle ginocchia, negli scompartimenti, tra cartacce, scorze e rimasugli, con cibi freddi e unti cacciati a forza tra le valve delle pagnottelle spaccate. Durante questi pasti c’era sempre qualcuno che, in attesa di recarsi al ristorante, guardava con aria di sufficienza e di disgusto alla famiglia curva sui cartocci. All’andata questo testimone non era mancato nella persona di una vecchia signora sdegnosa e ben vestita. Luca si era accorto di vergognarsi di mangiare e al tempo stesso di vergognarsi della vergogna. Tra questi sentimenti umilianti aveva appena toccato il cibo.
L’idea di non avere a svolgere carte oliate e divorare panini gravidi lo rasserenò; e per gran parte del viaggio rimase tranquillo, osservando la campagna. Venne finalmente il cameriere a raccogliere le prenotazioni e il padre non prese i biglietti. Luca pensò che si riserbasse per la seconda serie e tornò a guardare il paesaggio. Udì allora suo padre che diceva: «In fondo possiamo comprare i cestini a Orvieto... costano molto meno e contengono cose migliori di quelle che danno al ristorante». Il padre, pronunziando queste parole, non mostrava alcun sentimento particolare; egli sentì che prendeva questa decisione non per avarizia bensì per semplice buon senso. Né gli parve strano che la madre, sempre arrendevole ad ogni deliberazione che comportasse un’economia, rispondesse con indifferenza: «Come vuoi... io veramente avrei preferito il ristorante, se non altro per non ungermi le dita». Erano due persone, insomma, che decidevano d’accordo sopra una cosa senza importanza. E infatti la discussione durò ancora due minuti, calma e affabile, concludendosi con la vittoria paterna; vittoria così mite, del resto, da sembrare piuttosto l’incontro di due menti sorelle al crocevia di due strade molto simili. Ma Luca concepì lo stesso, pur rendendosi conto che la cosa non era stata decisa in odio a lui, una grandissima rabbia.
L’offese prima di tutto che nessuno dei due gli chiedesse il suo parere e che lo trattassero come una specie di oggetto, il quale, appunto perché è un oggetto, non ha preferenze né idee, né gusti, né volontà. Provò al tempo stesso una delusione profonda, tanto più scuorante e precipitosa quanto più si era esaltato all’idea di mangiare nel vagone ristorante. Ma a tutti questi risentimenti, se ne aggiungeva un altro che non pareva avere alcuna origine precisa né dipendere da quel particolare contrattempo: il solito furore che l’assaliva ogni volta che constatava la ribellione e l’insubordinazione delle cose e delle persone di fronte alla sua volontà. Questo furore sembrava venir di lontano e divampò ad un tratto, come un fuoco violento, ardendolo e scuotendolo tutto. Si fece bianco in viso, strinse con forza i denti e chiuse gli occhi. Si sentiva tutto irrigidito per la gran rabbia che gli tendeva il corpo; per un momento provò l’impulso di aprire lo sportello e gettarsi fuori dal treno. Questa tentazione suicida non lo spaventava né gli pareva assurda; era, come capì, lo sbocco naturale del furibondo senso di impotenza che lo sconvolgeva. Poi riaprì gli occhi e guardò i genitori. Come se la rabbia, quale una luce violenta e sgradevole, ne avesse colpito i tratti in una maniera nuova, gli sembrò di osservarne i caratteri per la prima volta: bionda e magra sua madre, con un viso angoloso cui il naso grande e la bocca stretta davano un’aria di autorità e di saggezza; biondo anche suo padre, ma molle e rotondo, con tratti sfuggenti e bonarii. Per la prima volta egli sentì la durezza e virtù materne, il buonsenso e la benevolenza paterne come cose non soltanto esterne a lui ma anche ostili. Con le quali egli non poteva accordarsi in alcun modo; e gli partivano da centri remoti sui quali egli non poteva esercitare alcun controllo. Capì, è vero, che, se avesse manifestato il suo desiderio, essi l’avrebbero subito accolto; forse sua madre, che non amava tornare sulle decisioni, si sarebbe opposta, ma per poco. Ma capì anche che non voleva a nessun patto costringerli a fare una cosa a cui non parevano aver pensato; anche perché quel desiderio gli ispirava adesso a sua volta una certa quale rabbia, come un impulso assurdo e che non andava preso in considerazione. Comunque, il fatto più importante non era tanto mangiare nel ristorante o nello scompartimento, quanto sentire i suoi genitori fatti della stessa materia ostile e ribelle che avvertiva nelle altre cose. E come le altre cose, con tutto il loro amore per lui, inaccettabili.
La rabbia, però, nonostante queste riflessioni, non gli passò: e giunti alla stazione di Orvieto, egli osservò con estrema ripugnanza suo padre mentre scendeva dal treno, comprava i cestini e tornava trafelato allo scompartimento. Il padre chiuse con cura lo sportello, tirò su il tavolino pieghevole fissato sotto il finestrino e vi posò sopra i tre cestini. Poi domandò a Luca con la premura superficiale e un po’ lamentosa che gli era propria: «Chino, hai fame? Vuoi mangiare subito? Oppure vuoi che aspettiamo ancora un poco?». Egli rispose senza voltarsi: «Mangerò quando mangerete voi».
Il treno ripartì; e parve a Luca che la vista della campagna che scorreva sotto i suoi occhi, calmasse per un poco il suo risentimento Ma, d’improvviso, venuta da non sapeva dove, una nuova ondata di rabbia l’investì; e, incapace di contenersi, egli si alzò e uscì dallo scompartimento. Andò dritto alla latrina, vi entrò e chiuse con furia la porta sbattendola. Uno specchio era inchiodato sopra il lavandino, egli vi avvicinò il viso spalancando la bocca, come se urlasse, sebbene in realtà nessuna voce gli uscisse dalla gola. Ma sentiva che urlava egualmente, senza rumore, con tutto il proprio corpo convulso. Il treno correva adesso con una violenza disastrosa infilando uno dopo l’altro gli scambi clamorosi. Tutto tintinnava e gemeva nell’angusta cabina, le assi di cui era contesto il vagone, il vetro nell’alveolo del finestrino, la cornice di ottone intorno al vetro, il bicchiere nel suo sostegno, il pavimento in cui parevano giocare e cozzare mobili piastre di ferro; Luca stava a bocca aperta con il senso di urlare più forte del fragore del treno e il suo furore gli pareva il treno stesso che ad un certo momento dovesse uscire dalle rotaie e volare attraverso la scarpata per sfracellarsi contro il fianco di una collina.
[...] All’arrivo i genitori non si occuparono più di lui, indaffarati a metter giù le valigie. Ma come si avviarono all’uscita, tra la folla dei viaggiatori, lungo il treno fermo, egli capì che non avrebbe mosso molti passi senza dar prima dello stomaco. La nausea, molto forte, si esprimeva in lui in un’acquolina acida e in una specie di stimolo incoercibile ad aprire la bocca. Ecco un vagone, poi un altro, poi un terzo. Da ogni vagone la gente scendeva giuliva, alacre, lasciando dietro di sé, negli scompartimenti vuoti, bucce, cartacce, cicche, bottiglie. Ecco un quarto vagone, già del tutto vuoto, con gli sportelli spalancati. E poi, ecco la locomotiva, con il suo quadrante gremito di maniglie e di tubi e la bocca rossa della caldaia aperta sullo sfondo di tutto quel ferro nero. Il macchinista stava affacciato, il viso affumato e unto, guardando alla gente e mangiando di buon appetito una mezza pagnotta piena di ciò che parve a Luca una specie di poltiglia gialla e verde: una frittata di spinaci. Alla vista della frittata, egli provò più forte il senso di nausea, come se tra quella poltiglia che il macchinista divorava con tanta ingordigia e la poltiglia che gli fermentava nello stomaco, si fosse ad un tratto stabilita una corrente di attrazione simpatica allo stesso modo che tra una calamita e un pezzo di ferro. Ormai erano giunti al paraurti della locomotiva: egli si appoggiò ad uno dei fanali e vomitò contro la gran macchina sbuffante. Udì sua madre che diceva con una voce che gli parve molto calma: «Lo sapevo che non stava bene»; e nello stesso tempo sentì una mano reggergli forte la fronte. Il padre badava a ripetere in tono bonario: «Non è niente... non è niente». E lui, pieno di rabbia e di non sapeva che fondo dolore, prese a singhiozzare forte. Ma mentre lo portavano via, disfatto e singhiozzante, e la madre gli diceva con voce irritata: «Ma perché piangi... sei quasi un uomo e ancora piangi», gli parve che l’aver vomitato sulla locomotiva fosse stata una specie di vendetta contro il treno che inflessibilmente l’aveva riportato in città, alla scuola e agli studi; allo stesso modo che i genitori, inflessibilmente, gli avevano negato il vagone ristorante.

ANALISI DEL TESTO


1. Dai un titolo al brano che hai appena letto, ispirandoti, se vuoi, a una frase del testo.
2. Definisci se il narratore è esterno, interno, onnisciente e quale punto di vista adotta.
3. Elenca gli oggetti e gli atteggiamenti che determinano in Luca un senso di nausea. Che cosa li caratterizza?
4. Nei confronti di comportamenti popolari e sciatti della gente comune quale atteggiamento assume Luca?
5. Che cosa significa, a tuo avviso, il titolo del romanzo. In cosa consiste questa disubbedienza?
6. Che ruolo svolge per Luca il paesaggio durante il viaggio in treno?
7. Definisci con rispettivamente con tre aggettivi il padre e la madre di Luca, motivando le tue scelte.
8. Dai la tua interpretazione alla seguente frase tratta dal testo: “Soprattutto la muta, inerte resistenza degli oggetti o meglio la propria incapacità a servirsene senza fatica e senza danno, aveva il potere di gettarlo in queste rabbie devastatrici.”
9. Spiega in che senso la rabbia e la tentazione suicida di Luca sono segno della sua impotenza.
10. Immaginate di essere il padre o la madre di Luca e di scrivere una lettera a un vostro amico, o parente, per sfogarvi o per chiedere consiglio o per confrontare interventi o soluzioni da mettere in atto con vostro figlio.

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